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Le rivelazioni della popstar che il 12 ottobre pubblica un'antologia con inediti e conferma la reunion con il vecchio gruppo. La solitudine, la droga, la disintossicazione e il recente matrimonio con Ayda Field
ROMA - L'idea era di incontrare Robbie Williams nella tana dell'orso, a Los Angeles. Lui era d'accordo. Il 12 ottobre esce il doppio album In and out of consciousness-Greatest Hits 1990-2010, celebrazione di vent'anni di carriera, con un singolo inedito, Shame, cantato in coppia con Gary Barlow. Una sorta di assaggio della reunion dei Take That (il cd esce il 23 novembre), la boy band che abbandonò senza preavviso nel 1995. Da allora ne abbiamo lette di ogni tipo. Robbie etero, bisex, gay in fuga da se stesso. Robbie scontento, ubriaco, drogato, abbandonato a se stesso. Robbie fuso, recluso, deluso, vittima di se stesso. Robbie, siamo agli ultimi mesi, di nuovo felice nel giorno di agosto in cui ha sposato l'attrice Ayda Field. Infine, Robbie colpito da una malattia misteriosa che lo costringe a cancellare l'incontro. "Meglio un'intervista telefonica", insiste. "Chiamo io". È puntualissimo. "Rientro ora da una partita di calcio", sputa trafelato nella cornetta.
Ma allora è in buona salute. Cos'è la storia della malattia?
"È tutto vero, sono malato e non sapevo di esserlo. Niente di incurabile, ma per anni questa "cosa" non è stata diagnosticata, mi dà letargia, mi fa sentire sempre stanco. Sa com'è, quando uno come me va dal medico non viene preso sul serio. Pensano: è il minimo con tutto quello che ha ingurgitato, droghe, alcol e tutto il resto... Quindi anch'io ho cominciato a pensare che la spossatezza che mi perseguitava fosse una reazione naturale agli abusi. Invece ho scoperto che è il risultato di una patologia, di cui non mi va di dire il nome, che finalmente siamo in grado di affrontare con dei farmaci".
Dovrà rimettersi in fretta, il suo cd è in uscita e la reunion con i Take That è anche più impegnativa.
"Da anni sono un'anima in pena, insoddisfatto, infelice, sempre alla ricerca di qualcosa che il successo non mi ha dato. E adesso, ironicamente, ho trovato il posto dove voglio stare, con la mia vecchia band. Sono di nuovo amico dei miei vecchi amici. Pronti per un altro tuffo nella follia. Le pare poco?".
Da come parla sembra che la carriera solistica battezzata con un contratto da 100 milioni, coronata da 60 milioni di copie vendute non sia stata fonte di alcuna soddisfazione.
"La mia vita, in questi anni, non mi è piaciuta affatto. È la trappola delle popstar: siamo alla costante ricerca di qualcosa che piaccia alle masse e dimentichiamo quel che piace a noi. Pensavo: il meglio deve ancora arrivare. E intanto mi divorava la febbre di dover raggiungere quel milione di persone in più. La verità è che io non sono mai stato pienamente soddisfatto di me, sto ancora cercando il disco perfetto, la canzone che è sulla bocca di tutti. Ci sono solo andato vicino".
Si può diventare dipendenti dal successo, come dalle droghe?
"Credo sia nella natura umana volere sempre di più, aspirare al massimo, cercare di superare se stessi e - quando una persona è competitiva come lo sono io - gli altri. Il processo è sano e stimolante finché le cose vanno bene, diventa rovinoso davanti alle prime difficoltà. Incominciai a usare droghe e alcol per fare meglio, in realtà fu solo l'inizio di un incubo".
Il video di "Shame" è tutto giocato su un'ambiguità alla Brokeback Mountain. Di chi è stata l'idea?
"Tutta farina del mio sacco. Volevo una stranezza, una cosa fuori posto nel mondo del pop, l'atmosfera di una vecchia canzone country corredata da immagini che lasciassero intuire un'intesa gay tra i due. Ormai possiamo anche scherzarci su questi argomenti. Né Gary né io ci arrabbiamo se qualcuno scrive che siamo gay".
La riunione dei Take That è qualcosa che le frullava in mente da molto tempo o è stata un fulmine a ciel sereno?
"Credo che inconsciamente io sia sempre stato tentato di tornare con i ragazzi. Ma c'erano degli impedimenti oggettivi. Il mio successo era alle stelle e loro stavano cadendo nel dimenticatoio, se fossi tornato sarebbe stato giudicato un estremo atto di salvataggio. Adesso che i Take That riempiono di nuovo gli stadi siamo a un livello di parità, la reunion è avvenuta su un terreno favorevole per entrambi".
Lei ci diede un taglio netto, lasciò l'Inghilterra per stabilirsi a Los Angeles. Un gesto esasperato da un divo. Perché lo fece?
"L'avvento di Internet e l'aggressività dei tabloid mi resero la vita impossibile. Le celebrità, un tempo, finivano a pagina sette dei quotidiani, poi all'improvviso tutti scoprirono che il gossip vende e cominciarono a strillare gli scandali - per lo più presunti - in prima pagina. La caccia all'uomo diventò insopportabile, io ero una delle loro prede preferite. Così scelsi LA, dove quasi nessuno mi conosceva, fu un sollievo non vivere più sotto il microscopio".
Ma il sole di California non le ha portato serenità.
"A Los Angeles ho vissuto da recluso. Mi chiedevo: sarà colpa del mio lavoro se divento sempre più cupo, introverso, solitario, depresso o succede anche ai comuni mortali? Per la verità non sono mai stato attratto dalla vita notturna, neanche da ragazzo, mi piacciono le comodità di casa mia, mi piace ricevere, trascorrere ore nello studio domestico. La vita, a Los Angeles, è stata costellata di momenti difficili, più bassi che alti. Non a causa della celebrità, ma della droga e dell'alcol. Per non parlare di una non meno pericolosa dipendenza dai farmaci. Oggi che c'è Ayda, mi considero un recluso di lusso, un prigioniero felice".
Il matrimonio le ha salvato la vita?
"Questo è un titolo di giornale, nessuno può salvarti se non lo vuoi tu. Nella vita tutto va sottoposto a verifica, carriera, successo, anche il matrimonio. Ma adesso siamo un team, e quando hai accanto qualcuno che ti ama incondizionatamente le prospettive sono diverse. Anche il fatto di vendere meno dischi diventa insignificante, persino il mancato successo americano è un non problema. Non sono più disposto a lavorare 24 ore al giorno per un primo posto in classifica".
Si sente pronto a diventare papà? Ci ha pensato?
"Sì, continuamente, anche stamattina, dopo che abbiamo fatto l'amore. La cosa mi attira e mi spaventa, perché mi sento ancora un bambino di otto anni".
Era a Los Angeles quando Michael Jackson è morto?
"No, ero alle Bahamas, ma la notizia mi ha comunque sconvolto. Pochi mesi prima anch'io ero in una situazione simile, stavo per essere ricoverato in un centro di riabilitazione e facevo il conto delle celebrità vittime della tossicodipendenza. La prima cosa che pensai fu: potevo esserci io al suo posto".
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