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lunedì 23 novembre 2009

INVESTIRE SU ROBBIE WILLIAMS

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Giorni fa avevo tradotto un articolo in inglese a proposito della futura possibilità di vendita quote a potenziali investitori che riceverebbero una percentuale sui guadagni di Robbie.
Qui sotto un articolo de LA STAMPA che approfondisce l'argomento.



TORINO
Nel 2002, appena firmato il contratto da capogiro per quattro album con la Emi, Robbie Williams dichiarava di essere ricco oltre i suoi «sogni più selvaggi». Oggi l’accordo sta per scadere e il suo manager sta elaborando un piano per raccogliere 50 milioni di sterline e permettere alla popstar inglese di continuare a incidere e pubblicare dischi.

Pagando una quota, si acquista il diritto ad una percentuale sui guadagni derivanti da album, video, concerti, ma pure t-shirt e sponsorizzazioni. Robbie Williams oggi non ha il grande successo che riscuoteva qualche anno fa, però il suo «Rudebox», uscito nel 2006, ha venduto comunque sette milioni di copie, una cifra che nemmeno gli U2 hanno raggiunto con il loro ultimo album. E poi «Reality Killed The Video Star» sta andando bene nelle classifiche, le ragazzine urlano ai suoi concerti proprio come una volta e i tabloid inglesi fanno di nuovo a gara per metterlo in prima pagina.

Così, in tempi di crisi, investire su Robbie Williams potrebbe essere un affare, ma è prima di tutto una scommessa sul futuro del pop e di un certo modo di fare e distribuire musica. Nel 1997, quando Bowie varò un’operazione simile con i suoi Bowie Bonds, il mercato era certamente più florido, gli Mp3 giochetti per smanettoni informatici e Napster non era ancora nato. Le obbligazioni sulle canzoni del Duca Bianco hanno raccolto 55 milioni di dollari in dieci anni, ma oggi un simile risultato sembra assai improbabile. D’altra parte, una band di culto come gli Einstürzende Neubauten aveva già chiesto ai propri fan di sovvenzionare la registrazione di un disco, ma senza insistere sul guadagno: chi pagava una quota poteva ricevere in anteprima video, demo, versioni speciali delle canzoni, e alla fine un’edizione autografata del cd. Poi sono arrivati i Radiohead, con il disco a offerta libera, i Nine Inch Nails con gli album gratis sul web, e Sellaband, un sito internet dove chiunque può investire denaro su cantanti emergenti per permettere loro di registrare un album; alla fine, naturalmente, prende parte ai guadagni eventuali. Di solito si tratta di giovani musicisti, ma da poco alla lista degli sconosciuti in cerca di successo si sono aggiunti i Public Enemy, che di dischi ne hanno già incisi dodici.

E se non è escluso che Robbie Williams continui ancora con la Emi, magari firmando un contratto per un solo disco come hanno fatto i Depeche Mode, è anche possibile che approdi ad un’altra etichetta. Il suo manager sta lavorando in questo senso, forte dei 48 milioni di copie vendute dal musicista trentacinquenne e della riunione, più volte ventilata ma ancora non realizzata, con i restanti Take That. E c’è sempre l’opzione Madonna: lasciare la casa discografica e lavorare per l’azienda che produce i concerti, visto che oggi gran parte dei guadagni delle rockstar proviene dalle esibizioni live, le uniche che non potranno essere replicate dalla tecnologia né uccise dalla pirateria. \È nato a Roma il Centro Studi per la Difesa dei Diritti degli Autori e per la Libertà di informazione. L’incarico di coordinatore del centro è stato affidato a Tullio Camiglieri. «La Rete è un ambiente libero e deve restare tale, ha detto Camiglieri - ma non è più tollerabile che sia consentito ad alcuni di continuare a calpestare i diritti dei produttori di contenuti e degli operatori dell’informazione. Oggi, attraverso motori di ricerca, c’è la possibilità di accedere in modo rapido, con dei “link”, ad articoli, film e video protetti da copyright, con il rischio che la capacità di creare contenuti editoriali si impoverisca fino a svanire. Produrre informazione costa, come costa produrre intrattenimento. La nascita di questo Centro Studi rappresenta un segnale molto importante per la tutela dei diritti di chi produce contenuti audiovisivi, cinema, giornali, libri: aziende che investono grandi capitali dando lavoro a centinaia di migliaia di persone». È del tutto evidente, ha aggiunto «che se la situazione continuerà a peggiorare, gli editori non avranno più ragione d’investire le loro risorse in questi settori».

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